2 settembre 2012

L'insostenibile normalità dell'essere


Un'infelice definizione la rese nota come "la fotografa dei mostri" ma il contributo che Diane Arbus diede alla fotografia fu molto più rivoluzionario di una semplice testimonianza delle imperfezioni fisiche o delle perversioni umane. 



È vero, amava ritrarre freaks e altri fenomeni da baraccone, travestiti, nudisti, nani, puttane dominatrici e clienti dominati e questo sarebbe già bastato a sconvolgere l'America puritana degli anni 60. Per provocare l'indignazione del pubblico sarebbero bastati l'amore e l'empatia che mostrava verso i diversi, che definiva "aristocratici" perché avevano superato il trauma esistenziale di cui, secondo lei, ognuno di noi ha paura e che non trattava con pietismo ipocrita né con pruriginosa curiosità. 
Ma la sua grande intuizione non fu in quel coinvolgimento, che comunque le sconvolse la vita. 



Se al primo riconoscimento ufficiale a lei dedicato, la mostra al MOMA di New York del '65, le sue foto ricevettero pesanti critiche e addirittura sputi da parte del pubblico non è solo per la sua spregiudicatezza nello spingersi in territori estremi, che lei comunque definiva invisibili eppure sotto gli occhi di tutti. 
Fu la sua sfrontatezza nel mostrare i soggetti della ricca borghesia, i militari patrioti, i premiati ai concorsi di bellezza, ritratti in situazioni goffe e imbarazzanti o in pose che ne rivelavano l'assoluta incoscienza di sé. 
Il che li rendeva assai più mostruosi dei "mostri" delle foto a fianco.



Sbattere in faccia a un'America la propria mostruosa stupidità fu la grande rivoluzione di Diane Arbus. 
«Sono nata per salire la scala della rispettabilità borghese e da allora ho cercato di arrampicarmi verso il basso, il più rapidamente possibile» diceva di se stessa. 

Diane Nemerov nasce nel 1923 da una famiglia dell'alta borghesia ebrea che, a dispetto della grande depressione del '29, fece studiare i tre figli con costosi metodi pedagogici tesi a svilupparne il talento e la sensibilità artistica (il fratello fu poeta e premio Pulitzer, la sorella scultrice). Da lì alla consapevolezza della propria condizione di privilegiati, quindi ai sensi di colpa per quella che lei definì "dolorosa sensazione di immunità", il passo fu breve. 



Diane studiò Goya e poi Grosz e i pittori espressionisti, ma dopo inizi incerti come pittrice arrivò alla fotografia divenendo assistente del marito Allan Arbus, che lavorava per riviste prestigiose come Vogue e Glamour. 
Nel '57 la fotografa newyorkese lascia il patinato mondo della moda e, tra frequentazioni di maestri dello scatto e artisti della controcultura, si spinge nel regno del proibito armata della sua fotocamera Leica. 
I suoi soggetti non saranno le vicende o i protagonisti della storia americana degli anni 50 e 60. Non il maccartismo (guardatevi la caccia ai sospetti comunisti raccontata nel film di George Clooney Good Night, And Good Luck del 2005) né le speranze di pace e giustizia incarnate dai Kennedy e da Martin Luther King, non le culture underground o le lotte contro la guerra in Vietnam.


«Diane Arbus fotografava i perdenti della Terra e quando portava le sue immagini crude alle gallerie o ai giornali, gli art director la cacciavano o la ignoravano, perché le sue schegge del dolore venivano giudicate di "infimo ordine" e non pubblicabili», racconta il libro Della fotografia trasgressiva curato da Pino Bertelli. 

Diane Arbus sceglie la strada del dolore che per altri è orrore. 
Va a conoscere persone sofferenti di deformità congenite che fotografa nelle loro camere da letto a riprova del rapporto di intimità e fiducia che riesce a instaurare: «Io mi adatto alle cose malmesse. Intendo dire che non mi piace metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, non la metto a posto. Mi metto a posto io»



Poi a luglio del 1971 il suicidio. 
L'hanno trovata nella vasca da bagno, vestita, coi polsi tagliati e piena di barbiturici. 
Dopo la morte in molti hanno amato e citato le sue immagini. Stanley Kubrick l'ha fatto inserendo le sue gemelline inquietanti in Shining e Hollywood l'ha ricordata a modo suo con il film FUR del 2006, con Nicole Kidman nel ruolo della Arbus. 
Ma a guardar bene, malgrado quello sfocato ritratto hollywoodiano, le sue foto nitide e feroci bruciano ancora.

David Vecchiato

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